L’ultima parte dell’analisi sul rapporto tra franchising e professioni che in Italia stenta a decollare al pari di tante altre forme di rete e dimensioni degli studi professionali

Nella prima parte di questo intervento, dal titolo “#Franchising e professioni: il percorso è difficile (prima parte) – Due storie”, ho introdotto il tema attraverso un confronto dei due settori sul tema “pubblicità suggestiva e denigratoria”. La conclusione che propongo è più “tecnica”, seppur certamente senza pretesa di essere esaustiva.

Come già riportato nel precedente intervento, spesso mi sono state chieste opinioni professionali sul tema “Franchising e professioni”, sulla costruzione di reti tra e/o per professionisti aventi le medesime caratteristiche del franchising e nel 2011 scrissi proprio un articolo per AZ Franchising, in parte richiamato in questo intervento.

Il contesto

Se cerchiamo su un dizionario di inglese la parola “network” troveremo la traduzione “rete”. Quindi, se ci attenessimo alla traduzione letterale, non esisterebbe differenza fra network e rete o fra “network di professionisti” e “rete di professionisti”. Ma una differenza, all’apparenza minima, c’è e, per comprenderla, dobbiamo osservare bene cosa sta accadendo ed è accaduto intorno al mondo delle professioni. Ultimamente si parla molto, anche perché oggetto di interventi da parte del legislatore nazionale ed europeo, di “network tra professionisti”, “studi associati”, “Geie” (gruppo europeo di interesse economico), “società tra avvocati”, “società tra professionisti”, interdisciplinarità, ecc. Indipendentemente da quanto costituirà ancora oggetto di intervento strutturale e sostanziale nelle professioni (nonostante importanti recenti riforme, il dibattito è tutt’ora in corso), è indubbio che tale comparto ha avuto e sta avendo momenti di evoluzione che qualcuno chiama di “ammodernamento”. L’argomento è ampio in quanto ciò che si definisce “ammodernamento delle professioni” talvolta rischia di incidere su aspetti deontologici ed etici.

Il marchio ha valore, anche fiscale

Per comprendere come le professioni si stanno muovendo attorno al franchising, dobbiamo prima fare un lungo passo indietro e prendere spunto da una risoluzione dell’Agenzia delle Entrate del 16.02.2006, la numero 30/E. Si tratta di una risposta a un’interpellanza formulata da un avvocato riguardo al “trattamento fiscale applicabile alle spese sostenute da un professionista per l’acquisto di un marchio” di altro professionista. In questo contesto, non ci interessa tanto analizzare la risposta quanto soffermarci sui riflessi generali che tale risposta ufficiale può o potrebbe comportare. L’Agenzia, nel formulare la replica, rileva, giustamente, alcune perplessità circa l’uso del termine “marchio” ponendo bene in evidenza come tale bene immateriale (all’epoca ai sensi del D.Lgs 30/2005, oggi sostituito dal D.Lgs. 131/2010) sia idoneo a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di un’altra impresa, fuori, quindi, dall’ambito professionale. Indipendentemente da ciò, l’Agenzia prende comunque atto di essere in presenza di una “manifestazione di volontà” (da parte dei contraenti) di ritenere economicamente “importante”, nella gestione e nello sviluppo di uno studio professionale, “un segno grafico” o un “segno distintivo.

È un importante “punto fermo”: l’Agenzia ha riconosciuto l’aspetto oneroso di un trasferimento per un segno distintivo utilizzato in ambito professionale e la prassi fiscale da adottare in occasione di tale trasferimento. La situazione descritta dall’istanza non è del tutto episodica, ma si colloca in un contesto di grande attualità, soprattutto nel settore legale dove il valore del “brand” è sempre più considerato un vero e proprio “asset”.

C’è il franchising nel futuro delle professioni?

Questo “apprezzamento economico” del brand professionale si è imposto in Italia in tempi recenti, rispetto a quanto accade nel mondo anglosassone, ma strettamente connessi a tale apprezzamento sono anche altri elementi e fattori che stanno sempre più emergendo nell’attuale contesto e che, sempre più spesso, sono “agganciati” (direttamente o indirettamente) al brand. Si tratta di quei valori immateriali che possiamo definire a carattere organizzativo-gestionale e che portano a omogeneizzare politiche e sistemi di gestione degli studi professionali che hanno deciso di condividere una “casa comune”. In questo caso al brand è legato un vero e proprio know-how abbinato ad una vera e propria assistenza, sia tecnica che commerciale, come ad esempio:

  • stessi sistemi e strumenti di gestione, compreso il relativo controllo con monitoraggi ed attività di budgeting (predisposizione del budget);
  • l’analisi delle norme contenute in molti codici deontologici professionali affinché si concilino con programmi e progetti rivolti ad attuare veri e propri piani di marketing studiati ad hoc per il network e i singoli studi aderenti;
  • elaborazione e attuazione di comuni attività di customer satisfaction;
  • corsi e stage di aggiornamento riservati agli aderenti alla struttura;
  • (talvolta) medesimo layout dei locali utilizzati dagli studi;
  • (spesso) collegamenti internazionali e partecipazione ad appalti di caratura internazionale.

Come detto si tratta di un argomento molto vasto e dibattuto e che, talvolta, si pone in conflitto tra le norme “latine” e le norme “anglosassoni” che regolano le professioni. Ciò, comunque, ci consente di analizzare l’argomento osservando il contenuto della normativa sul franchising (Legge 129/2004). Quello che di tale normativa ci interessa è:

  • l’art.1, comma 1: “L’affiliazione commerciale (franchising) è il contratto, comunque denominato, fra due soggetti giuridici, economicamente e giuridicamente indipendenti, in base al quale una parte concede la disponibilità all’altra, verso corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale relativi a marchi, denominazioni commerciali, insegne, modelli di utilità, disegni, diritti di autore, know-how, brevetti, assistenza o consulenza tecnica e commerciale, inserendo l’affiliato in un sistema costituito da una pluralità di affiliati distribuiti sul territorio, allo scopo di commercializzare determinati beni o servizi”;
  • l’art.1, comma 2: “Il contratto di affiliazione commerciale può essere utilizzato in ogni settore di attività economica”;
  • l’art.3, alla lettera f), il quale prescrive che, tra gli elementi contrattuali obbligatori, devono essere indicate: “le caratteristiche dei servizi offerti dall’affiliante in termini di assistenza tecnica e commerciale, progettazione ed allestimento, formazione”;
  • l’art.4, comma 1, lettera b), il quale prescrive che l’affiliante è obbligato ad indicare i “marchi utilizzati nel sistema, con gli estremi della relativa registrazione o del deposito, o della licenza concessa all’affiliante dal terzo, che abbia eventualmente la proprietà degli stessi, o la documentazione comprovante l’uso concreto del marchio”.

Indubbiamente siamo ancora ben lontani da ritenere applicabile la normativa sul franchising ai rapporti “aggregativi” in ambito professionale, ma non credo sia richiesto un grande impegno nell’associare questi stralci di legge a molti di quegli elementi che caratterizzano tanti “network professionali”, descritti in precedenza, e credo che non sia così difficile individuare numerosi elementi in comune. Nell’ormai “lontanissimo” 2001, su un importante quotidiano economico a carattere nazionale, apparve un articolo dal titolo “Nel futuro uno studio franchising” nel quale si illustrava una tendenza che, negli anni successivi, ha poi visto una concreta attuazione in alcuni progetti. Al tempo, tale articolo destò una certa perplessità tra gli operatori del settore e tra i professionisti iscritti agli Albi: un articolo da visionari, da intuitivi, da futuristi o da lungimiranti? Ovvio che, insieme a tantissimi altri fattori, la particolare situazione italiana relativa al mercato e alle strutture professionali operanti assume molta importanza per formulare una valutazione e un giudizio di senso compiuto e, certamente, la tanto (da tempo) discussa riforma delle professioni potrebbe contribuire a capire la reale tendenza del settore che, però, ha la necessità di tenere comunque conto della tutela dei cittadini. Non dimentichiamoci che stiamo parlando di uno dei settori più importanti della società economica. È, infatti, assurdo innalzare la bandiera della “libera concorrenza” nelle professioni chiedendo il conseguente “libero esercizio” delle attività professionali (legali, contabili, fiscali, sanitarie, ecc.), quando, ad esempio, per operare sulle ruote di un auto, così come intervenire su un impianto elettrico, idraulico o per tante altre attività, quali estetista, parrucchiere, ecc., occorre essere “autorizzati e abilitati” e solo se si è in possesso di specifici requisiti soggettivi e talvolta oggettivi si può esercitare l’attività.

Un connubio difficile

Dopo la rendicontazione dei fatti (includendo la prima parte), mi limito solo a constatare e ad affermare che occorre e occorrerà porre molta attenzione al mondo del franchising anche per il settore professionale, settore, che, talvolta, fornisce dati in assoluta contraddizione rispetto alla natura del franchising stesso. E’ un settore dove trova difficoltà la costituzione di studi associati (molto pochi rispetto ad altre nazioni) e dove l’indipendenza (a torto o a ragione) la fa da padrona nella maggior parte dei suoi operatori. Elementi che non concedono molti spazi ottimistici sulle possibilità di applicare forme di franchising alle attività professionali. Non posso nascondere, infatti, il dato oggettivo a tutti noto e cioè che ogni singolo professionista “italico-nazional-popolare” si sente depositario della migliore metodologia gestionale del proprio studio ed è sicuro che esiste solo un modello da trasferire a terzi: il suo. Al massimo si pone a semplice confronto con i Colleghi, ma non tutti. Ciò può trovare giustificazione e riscontro nella tipologia di rapporti instaurati tra clienti e professionisti. Rapporti basati sull’elemento fiduciario, sia esso personale o professionale. Ma, nel frattempo, sono diverse le iniziative che stanno maturando. Dopo il caso del settore “legale” e la citazione al settore “sanitario”, posso citare anche un altro esempio. Recentemente ho assistito, nel corso delle varie fiere ed expo sul franchising, ad espositori-franchisor che ponevano al centro della loro attività servizi e consulenza di natura “fiscale” e “contabile”, attività che per alcuni professionisti iscritti in Albi ha richiesto e richiede anni e anni di studio e specializzazione. E mentre, sempre per stare agli esempi, le iniziative per il settore “legale” sono state, quanto meno, attivate ricercando affiliazioni nel bacino dei professionisti competenti (avvocati) e quelle per il settore “sanitario” nel bacino di medici professionisti (per obbligo), nel caso “fiscale” e “contabile” la proposta di affiliazione è offerta a un qualsiasi visitatore della fiera, con forti dubbi sulla progettazione di un vero e proprio profilo del candidato ideale e sul programma di formazione effettivamente necessario per lo svolgimento dell’attività.

I motivi di questo attivismo del settore professionale potrebbero essere molti (ricerca di nuove leve di sviluppo, nuovi bacini di utenza, crisi economica, “scorciatoie” per l’esercizio della professione, ecc.). Certo è che, mentre da tempo si dibatte sulle società tra professionisti, sulla presenza, in queste, di soci di capitali, sulla quota di maggioranza o minoranza di quest’ultimi, sulla concorrenza delle multinazionali di revisione, sugli studi di consulenza legali o tributari di provenienza estera, sulle competenze “esclusive” e quelle “a libero mercato”, su professioni regolamentate e non regolamentate, riconosciute e non riconosciute, intanto altre organizzazioni straniere attive nella consulenza si affacciano sul mercato italiano e, come una specie di “testa di ariete”, fanno, o potrebbero fare, da apripista a sviluppi futuri. In Italia sono, infatti, già operanti reti di franchising che, da oltre un decennio, offrono ufficialmente attività di consulenza, anche se spesso, approfondendo, si tratta più di servizi operativi che di attività intellettuale/consulenziale. Strutture che, in ogni caso, con la maggior parte della “mentalità” italiana non hanno proprio niente a che fare e condividere (anche in questo caso, a torto o a ragione, non sta a me deciderlo).

Ed allora: è forse iniziata una “metamorfosi” o una “evoluzione“ ? Forse sta accadendo una cosa semplicissima: a fianco di una riforma delle professioni di carattere “regolamentare”, in discussione da decenni e mai terminata, è già decollata (e da tempo) un’altra di carattere “operativo” attuata da coloro che, appunto, “operano sul campo” e allora si sta avvicinando sempre più in fretta il momento in cui “network” e “rete” avranno effettivamente il medesimo significato e non potrà destare più alcuna perplessità parlare di “studi in franchising”. Ancora una volta, il franchising sembra essere protagonista di un altro settore economico. Che questo sia positivo o negativo per le “libere professioni” non sta a me dirlo, anche perché soggetto direttamente interessato, ma un invito ad osservare il settore con molta attenzione posso farlo.

commenti
  1. […] questo blog con “#Franchising e professioni: il percorso è difficile” (Prima Parte e Seconda Parte). E l'”effetto liberalizzazioni” c’è stato proprio in Spagna, come analizza il […]

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