Dalla riforma sull’associazione in partecipazione giunta con le disposizioni del Jobs Act, possono derivare importanti effetti collaterali nel settore delle reti e, in particolare, nel [falso]franchising. Effetti che, per certi versi, possono essere considerati positivi, ma per altri possono essere considerati preoccupanti, in particolare per coloro che hanno aderito ad alcune reti

Cerchiamo di fare ordine. Con il Decreto Legislativo 04.03.2015 n.23, contenente disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge n.183 del 2014 (c.d. Jobs Act), il legislatore è intervenuto in diversi ambiti del mondo del lavoro e, tra questi, anche in quello che riguarda le “associazioni in partecipazione”. L’intervento ha riguardato l’articolo 2549 del Codice Civile, con una modifica al primo comma e l’abrogazione del comma 2 e del comma 3, già oggetto di interventi dalla nota “Riforma Fornero“. Nella pratica, il Jobs Act ha eliminato la possibilità di costituire associazioni in partecipazione con apporto di lavoro, limitando tale possibilità ad associazioni in partecipazione con apporto d capitale e, quindi, senza che l’associato possa effettivamente operare nell’impresa in termini lavorativi. Vediamo queste modifiche e poi capiamo i riflessi.

Le modifiche sono assolutamente evidenti dal confronto tra il testo previgente ed il nuovo testo aggiornato.

ARTICOLO 2549 DEL CODICE CIVILE – ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE (Nozione)

Precedente versione

  1. Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto.
  2. Qualora l’apporto dell’associato consista anche in una prestazione di lavoro, il numero degli associati impegnati in una medesima attività non può essere superiore a tre, indipendentemente dal numero degli associanti, con l’unica eccezione nel caso in cui gli associati siano legati all’associante da rapporto coniugale, di parentela entro il terzo grado o di affinità entro il secondo. In caso di violazione del divieto di cui al presente comma, il rapporto con tutti gli associati il cui apporto consiste anche in una prestazione di lavoro si considera di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
  3. Le disposizioni di cui al secondo comma non si applicano, limitatamente alle imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall’organo assembleare di cui all’articolo 2540, il cui contratto sia certificato dagli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento.

Nuova versione

  1. Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto di capitale.
  2. […]
  3. […]

Chiariamo. La partecipazione è un principio che andrebbe valorizzato, così come previsto dall’articolo 46 della Costituzione. L’associazione in partecipazione ha conosciuto un utilizzo difforme (si ricorda il caso di centinaia di commesse inquadrate come associate in partecipazione, mentre erano lavoratrici subordinate), però rimane valido il principio per il quale le persone si mettono insieme per fare un certo tipo di attività, condividendo rischi ed utili. Chiaramente è possibile utilizzare lo strumento della società, ma il segnale che il legislatore manda ancora una volta è quello di una ridotta o nulla attenzione al tema della partecipazione. E’ l’ennesimo fallimento alla capacità di controlli per usi impropri, è una regola tranciante che potrebbe, invece, essere utile a mediare specifiche esigenze di soggetti che per decenni hanno identificato nell’associazione in partecipazione il giusto compromesso tra la “non-società” e una collaborazione “equilibrata”, una “semiautonomia assistita” e altre possibilità che non rientrano nell’abuso. Questo aspetto, purtroppo, ha un canale politico sul quale questo intervento non si concentra.

Adesso, quindi, prima di comprendere i riflessi di tale modifica legislativa, dobbiamo fare un “salto” in uno specifico settore di attività imprenditoriale: le agenzie di viaggio.

Per esercitare l’attività di agenzia di viaggio, è necessario la presenza di un direttore tecnico d’agenzia di viaggio che è il soggetto responsabile della conduzione aziendale e svolge mansioni di natura tecnico-specialistica, concernente la produzione, l’organizzazione o l’intermediazione di viaggi e di altri prodotti turistici. Non esiste alternativa: è un obbligo. Per assumere la qualifica di direttore tecnico d’agenzia di viaggio, i requisiti soggettivi sono molti ed occorre essere in possesso di una non comune formazione. Il direttore può essere responsabile anche di più agenzie ubicate sul territorio nazionale (filiali o unità locali), purchè, della medesima azienda e non può esercitare la sua mansione per più di una azienda. Quest’ultimo aspetto è il punto nevralgico in quanto, mentre consente la costruzione di una vera e propria catena di agenzie di viaggi a gestione completamente diretta, molto più problematica diventa la costruzione di una rete commerciale, soprattutto ove si intenda fornire il know how a terzi soggetti imprenditori indipendenti e autonomi titolari di autorizzazioni per l’esercizio dell’attività.

A questo punto possiamo “entrare” nel mondo del franchising e delle reti commerciali.

E’ ben noto e conosciuto che nel settore del franchising sono molti i casi che hanno visto protagoniste reti che “apparivano” o “sembravano” o “si dichiaravano” operanti in franchising, mentre all’atto concreto applicavano altre forme contrattuali di carattere “alternativo”. Una situazione che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in molti casi trattati, ha ritenuto ingannevole e degna di provvedimenti sanzionatori, anche rilevanti.
Tra questi casi è altrettanto ben noto e conosciuto l’utilizzo del contratto di associazione in partecipazione nel settore delle agenzie di viaggi, strumento contrattuale che, teoricamente e con, comunque, assunzione di alti rischi, consente di “aggirare” la necessità del direttore tecnico obbligatorio per la gestione dell’agenzia. Nella pratica cosa accade o cosa accadeva. Un [non]franchisor propone ad un [illuso]franchisee di aprire una agenzia di viaggio a marchio del [non]franchisor pur in assenza dei requisiti soggettivi dell'[illuso]franchisee. Nella maggior parte dei casi (salvo, quindi, particolarità che non modificano la sostanza), il rapporto è impostato con queste caratteristiche:

  • titolare dell’agenzia: il [non]franchisor;
  • direttore tecnico: il medesimo del [non]franchisor;
  • caratteristica del punto affiliato: risulta una filiale del [non]franchisor;
  • tipologia di contratto: associazione in partecipazione con apporto di lavoro, talvolta spudoratamente accompagnato da un contratto di franchising determinando una contraddizione ed un conflitto normativo alquanto palese;
  • condizioni economiche dell’apporto di lavoro: riconoscimento di una percentuale residuale dal [non]franchisor all'[illuso]franchisee, invertendo il più classico dei flussi economici del vero franchising;
  • condizioni economiche dell’appartenenza alla rete: possono non essere presenti, ma se presenti è possibile trovare diritto di entrata (diritto di essere “associato”) a carico dell'[illuso]franchisee ed è possibile trovare anche royalties dovute a vario titolo (uso marchio, assistenza commerciale, ecc., ecc.);
  • flussi economici con il “viaggiatore/cliente”: materialmente eseguiti dall'[illuso]franchisee a nome del [non]franchisor, con rimesse periodiche o anche immediate, a seconda delle caratteristiche tecnologiche;
  • gestione dell’agenzia: a totale carico dell'[illuso]franchisee;
  • investimenti in beni materiali e immateriali: a carico dell'[illuso]franchisee, salvo casi particolari di comodati, ecc.;
  • contratto di locazione immobile: sottoscritto dal [non]franchisor con la proprietà con clausola di sublocazione (canoni locazione ufficialmente a carico del [non]franchisor);
  • contratto di sublocazione immobile: sottoscritto dall'[illuso]franchisee con il [non]franchisor (canoni locazione ufficialmente a carico dell'[illuso]franchisee).

Probabilmente le caratteristiche sopra elencate non sono tutte quelle che possiamo trovare in molti altri casi, così come alcune di esse possono non essere presenti in altrettanti casi ed è necessario anche segnalare che alcuni marchi dichiarano sin dall’inizio dei rapporti (dai primi contatti) la caratteristica della rete impostata e regolamentata con tale tipologia di contratto. Una sicura e certa forma di rispetto della necessaria trasparenza, ma certamente una situazione ad alto rischio, come ben sanno i professionisti dell’area giuridico-economica, ma soprattutto quelli dell’area giuslavoristica. Situazioni che, per quanto riguarda l’attività professionale svolta dal sottoscritto, hanno determinato, nella veste di consulente al franchising, la rinuncia ad almeno un paio di progetti proposti da [falsi]franchisor (l’ultimo nel 2011) e, nella veste di commercialista, l’impedimento all’adesione da parte di alcuni [illusi]franchisee, con il risultato che i primi hanno, comunque, trovato [sedicenti]professionisti disposti ad impostare il progetto franchising con le caratteristiche “aggiranti” sopra descritte e i secondi hanno rinunciato alla loro illusione di poter aprire una agenzia di viaggio dovendo modificare il loro progetto di vita imprenditoriale. Attenzione: la rinuncia per la prima tipologia di soggetti lo è stata perchè la volontà era quella di voler “vendere la franchise” con tale strumento e non dichiarare da subito la tipologia di contratto adottata, perchè “il franchising si vende bene, la gente cerca il franchising” (situazione dichiarata ingannevole dall’AGCM: non si può usare impropriamente la denominazione “franchising” per un contratto che non lo è), ma il risultato di rinuncia sarebbe stato il medesimo. Questa specifica è necessaria, perchè neanche la certificazione delle reti commerciali IREF Italia-Bureau Veritas prevede la possibilità che possa essere considerata “rete commerciale” una rete regolata contrattualmente dall’associazione in partecipazione (avendola curata direttamente non poteva essere che così !).

Quindi, il futuro ci riserva una associazione in partecipazione con solo apporto di capitale e insieme all’abrogazione dei commi 2 e 3 della legge 2549, che regolavano la partecipazione con apporto di lavoro, viene abrogato anche quanto disposto dall’articolo 1, comma 30, della legge 92/2012, che indicava i criteri di presunzione per identificare il rapporto di associazione in partecipazione, quale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Conseguenza di ciò: tutti i contratti in essere che prevedono anche una prestazione di lavoro sono fatti salvi fino alla loro cessazione.

E adesso che l’associazione in partecipazione con apporto di lavoro non esiste più ? Beh, credo sia facile intuire come una tale imponente modifica normativa comporterà problemi alquanto rilevanti per le reti che hanno optato per l’uso di impostazioni contrattuali di tale natura.

Da un lato, dovremmo serenamente affermare che per il franchising “è un bene” perchè elimina modalità e sistemi “aggiranti”, scorciatoie tanto apprezzate dall’italianità diffusa. E’ un bene anche perchè “pagare” per entrare in una rete, per svolgere una attività autonoma (che non lo diventa), ecc. senza essere titolari di niente, senza diventare veri imprenditori, senza realizzare neanche le proprie ambizioni…è anche un po’ immorale. E il tutto a discapito di chi, invece, è sempre stato alle regole ed al rispetto di norme certamente stringenti, poco elastiche, ma necessarie per la professionalità e la preparazione che tale tipologia di attività richiede.

Dall’altro non possiamo evitare di porre un pensiero di preoccupazione nei confronti dei moltissimi [falsi]affiliati che hanno investito la loro vita in tali attività, che stanno vivendo la loro vita gestendo tali attività. Stesso pensiero deve essere indirizzato a tutte le risorse umane che operano nelle reti come personale e che potrebbero vedere arrivare una crisi di lavoro data dalla crisi del sistema di rete impostato.

Cosa accadrà ? Non possiamo che osservare e monitorare attentamente il settore e, nel frattempo, poter confermare che “prevenire è (era) meglio che curare“, ma una cura, adesso, sarà individuata per salvare molte “vite imprenditoriali”? La ricerca per una soluzione è ufficialmente iniziata.

commenti
  1. […] In merito è interessante il post di Mirco Comparini. […]

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